mercoledì 3 ottobre 2007

Bottonella

Non so chi ne avesse fissato le regole, forse il più grande dei miei fratelli, e sinceramente a distanza di oltre cinquant’anni non le ricordo nemmeno, ricordo che era un gioco che si faceva affrontandosi con una squadra composta da un certo numero di bottoni ( tra i cinque e gli otto più o meno) contro un’altra di pari forza.
I bottoni venivano mossi da attrezzi manufatti ove si scatenava la fantasia del mossiere dovevano far saltare il bottone perché quello era il modo di muovere e di conquistare il bottone avversario e ciò avveniva quando a salto effettuato rimaneva sopra anche parzialmente al bottone dell’avversario. Ho sentito parlare dell’esistenza di un gioco simile chiamato “pulce” che veniva giocato con pedine tipo “fiches” ma non l’ho mai visto giocare.
Quando l’inverno bussava alla porta ed alle quattro del pomeriggio era buio non si poteva più rimanere in strada a giocare (anche per il freddo) si stava in casa e fatti i compiti si organizzava il pomeriggio.
Forte di due fratelli poco più grandi di me avevo sufficiente compagnia per non aver bisogno dell’aiuto esterno e anche per la genialità del più grande di noi avevamo sempre qualche gioco da fare spesso generato dalla fantasia del medesimo.
In casa nostra c’era un grande tavolo, una delle poche cose che i miei recuperarono dal bombardamento della loro casa al Casilino(fortunatamente vuota al momento dell’arrivo delle fortezze volanti) aveva un piano di legno massello alto 5 centimetri e stava nella stanza di disimpegno dove si stava quando non si dormiva: era coperto da un panno damascato perché non si vedessero le piaghe causate dal coinvolgimento nel crollo che ferivano la superficie del piano. Quando mangiavamo, mia madre metteva sopra la tovaglia e diveniva tavolo da pranzo, ma nei pomeriggi invernali veniva tolto il panno damascato e sulla scabra superficie eravamo autorizzati a far tutto, anche piantare chiodi purchè venissero rimossi alla fine del gioco, i fori sarebbero stati solo un minuscola danno aggiuntivo.
Su questo tavolo giocavamo interminabili partite a “bottonella”
Con il gesso veniva segnato il campo e poi iniziava la battaglia che terminava solo con l’eliminazione totale dell’armata avversaria o perché arrivava l’ora di cena.
Il gioco di per se come detto consisteva nel far saltare i bottoni avanti ed indietro tentando di saltare sopra quelli dell’avversario, ma per saltare bene occorreva certo una buona mano del giocatore, ma era importante anche la forma del bottone per questo motivo quando veniva proposto il gioco dopo l’abbandono estivo si andava da mia madre a chiedere la scatola dei bottoni.
La scatola dei bottoni era in qualunque casa italiana che io conoscessi, normalmente di latta, una vecchia scatola di caramelle o di biscotti, piena di tutti i bottoni che le nostre madri toglievano agli abiti che per inconsistenza organica divenivano stracci, stracci per spolverare, per lavare per terra ecc l’importanza del recupero dei bottoni era misteriosa, mai visto riutilizzare un bottone se non qualche rara volta per la patta dei pantaloni perché allora non si usavano le chiusure lampo, però la scatola dei bottoni era sacra, ci veniva concessa come una reliquia da mia madre sapendo che non avremmo sperperato i gioielli di famiglia e con il severo monito di restituire i bottoni alla fine del gioco.
A quel punto ci ponevamo tutti e tre attorno al tavolo, veniva rovesciata l’intera scatola sul piano e li si cominciava a selezionare i giocatori.
La scelta ripeto veniva fatta per come il bottone reagiva alla pressione della stecchetta sul bordo che lo spingeva in alto, ma non solo, spesso anche la forma, la dimensione e perfino il colore erano determinanti, un pomeriggio solo per fare le formazioni con liti (sempre e solo verbali) “ quello era mio l’anno scorso” oppure il classico”l’ho visto prima io” poi fatte le formazioni si faceva la conta per scegliere i due primi contendenti, poi sul tavolo/campo la partita.
Il perdente aveva sempre qualcosa da ridire sulla proprie scelte e scartava come brocchi i bottoni che lo avevano deluso e si lanciava alla ricerca di nuovi talenti per gli incontri successivi.
Ci affezionavamo talmente ad una serie di bottoni che davamo ad essi anche i nomi di battaglia, dei miei nei ricordo tre “Biancolatte” ovviamente un bottone totalmente bianco, ricordo che era di circa un cm di diametro e non so da quale abito provenisse, poi c’era “L’americano” come forma simile a Biancolatte, ma di un colore indefinito e non ricordo assolutamente cosa avesse provocato il nomignolo, non era certo di provenienza statunitense, ma il più celebre dei miei bottoni era “Gianni ciavatta” color cappuccino chiaro proveniente da qualche cappotto era grande come tutti i bottoni di cappotto ed era lentissimo, aveva solo un pregio era difficilissimo che i bottoncini piccoli e saltanti potessero fermarsi su di lui per la forma del dorso.
Era il bottone che provocava spesso lo stallo, perché manovrandolo accortamente riuscivo a non farlo portare a tiro e così si faceva ora di cena.
Certo non sempre andava così io ero il più piccolo ed il meno dotato in attività manuale ed era normale che perdessi quasi sempre, ma accettavo il verdetto perché mai avrei chiesto un vantaggio in quanto “piccolo”. A farne le spese erano i bottoni che dopo ogni sconfitta, a parte i tre sopra citati venivano insultati con la moderazione che avevamo noi ragazzi di allora e rimessi nella famosa scatola e sostituiti con altri che invariabilmente facevano poi la stessa fine.
E così senza TV senza altre diavolerie elettroniche aspettavamo che passasse l’inverno per tornare a correre in strada con i giochi all’aria aperta.
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P.s .Il vecchio tavolo è ancora in casa mia, ora sta nello stanzino e fa da banco di lavoro, gode di ottima salute nonostante gli oltre sessantacinque anni e non è attaccato dai tarli, chissà forse emana ancora l’odore della cordite delle bombe americane e forse spera ancora che qualche bambino lo sgomberi per fare una partita a “bottonella”.